L'Olivo di Venafro
A cura di Emilio Pesino e Ferdinando Alterio
Venafro, assieme alla biblica Efraim in Palestina e al Monte degli Ulivi di Gerusalemme, È UNO DEI TRE LUOGHI SIMBOLO DELL’OLIVICOLTURA STORICA MEDITERRANEA. I Romani ritenevano l'olio prodotto in loco il più pregiato del mondo antico. Plinio il Vecchio lo poneva al primo posto, davanti all’olio istriano e quello della Betica in Spagna. Nessun luogo al mondo coltivato ad olivo, infatti, può vantare le tradizioni e le citazioni letterarie dell’Olio di Venafro, da Orazio a Giovenale, da Marziale a Varrone. In questi oliveti, dove Catone il Censore possedeva una villa rustica con frantoio (trapetum) nacque la famosa legge sulla vendita delle olive (Lex olea pendentis), concepita sul modello di Venafro, proprio dallo stesso Marcio Porcio Catone. Si può affermare che a Venafro sia iniziata anche la moderna commercializzazione dell’olio di oliva.
La Mappa di Comunità del Paesaggio rurale storico dell’Olivo di Venafro, report del Progetto Interreg Cross Border Olive, racchiude oltre 2000 anni di storia degli olivi di Venafro. Si notano nell’immagine i resti della cavea del teatro romano con la Venere di Venafro, presenziati a destra da Plinio il Vecchio e Orazio, in rappresentanza della schiera di scrittori latini che hanno magnificato gli oliveti di Venafro. Più in alto le Mura poligonali, secondo taluni luogo della Villa rustica di Catone il Censore, dove lo stesso è rappresentato con un trapetum catoniano
Lo storico Vincenzo Cuoco riconobbe in un personaggio sannita di nome Licinio, l'importatore della coltura olearia nell'area venafrana. Durante un immaginario viaggio filosofico e archeologico nell'Italia meridionale, fa scrivere così da Clobulo a Platone: "Voi greci credete che l'ulivo non prosperi a quaranta miglia dal mare; tempo fa lo credevamo anche noi; e gli abitanti delle Mainardi e della Maiella erano costretti a comprar l'olio dagli abitanti delle terre vicine al mare. Il mio amico Licinio ha voluto introdurre l'ulivo nella sua patria. Egli era cittadino di Venafro. Dopo lunghe ricerche, fra le tante specie di questa pianta, ne ha trovata finalmente una capace di sostenere il freddo delle paterne montagne; e l'olio di questo ulivo non cede all'olio dei Salentini e dei Tarantini".
Nel II secolo a.C., Marco Porcio Catone, che possedeva una villa rustica con oliveti a Venafro, suggeriva nel De Agricoltura, CXLVI, di applicare il metodo applicato a Venafro per la vendita del frutto pendente ("Oleam pendentem hac lege venire oportet. Olea pendens in fundo Venafri venibit…"). Si stabiliscono con essa precise norme per la vendita delle olive e il relativo prezzo d’acquisto. Da essa si desume che a Venafro si producevano l’olio verde, l’olio romano e le olive cascola. Nei pressi delle Mura “ciclopiche” della Madonna della Libera, vi è un'area articolata su più platee rettangolari, disposte fondamentalmente su quattro livelli, tutte sorrette da terrazzamenti in opera poligonale per una superficie complessiva pari a un ettaro.
Il primo studioso che si è occupato in maniera puntuale delle Mura è stato il canonico Francesco Lucenteforte, autore tra l'altro di “Venafro, Monografia-fisico-economico-morale”.
Questi, nel 1875, ospita e accompagna in vari sopralluoghi, anche presso le mura ciclopiche, l’illustre epigrafista Theodor Mommsen, in occasione della sua venuta a Venafro, cui fece avere successivamente planimetrie e prospetti delle Mura, documenti validi tutt'oggi. Interessante è risultata l’ipotesi che le strutture del terrazzamento potessero essere in qualche maniera riconducibili proprio a quella villa rustica di Venafrum di cui parla Marco Porcio Catone nel suo De agricoltura, di cui era proprietario.
Orazio descriveva Venafro ammantata dagli ulivi (“Ille terrarum mihi praeter omnes, angulus ridet ubi non Hymetto mella decedunt, viridique certat Bacca Venafro” - Quell'angolo di mondo a me più di ogni altro sorride, dove il miele non cede il passo a quello dell'Imetto e l'ulivo gareggia con quello della verde bacca di Venafro - Odes et epodes, II, 6, vv.13/16).
Secondo il Presta l'aggettivo verde è riferito da Orazio alle qualità dell'olio: l’oleum viride o semionfancino prodotto a Taranto e Venafro. Colummella, a tal proposito, nel De Re Rustica, invita i produttori di olio a dar comando di raccogliere la Licinia e la Sergia, quando le drupe iniziano ad invaiare, avendo valutato questo come il momento di raccolta ottimale per produrre l’Oleum viride.
E' opinione comune che l'area venafrana fu una delle prime regioni a coltivare l'albero ritenuto sacro dagli Ateniesi e introdotto dalla Campania fino al Lazio in tempi remoti, sebbene, secondo Plinio, l'olivo sia stato assente dall'Italia prima del 581 a.C.
La coltura olearia raggiunse livelli intensivi ed estensivi tali, da rendere Venafro famosa in tutto il mondo romano.
Quod far comparem campano, quod triticum appulo, quod oleum venafrano? (Quale farro potrei paragonare con quello campano, quale frumento con quello pugliese, quale olio con quello venafrano?) proclamava Marco Terenzio Varrone (De re rustica libro 3, 1,2), e Marco Valerio Marziale scriveva : “Hoc tibi sudabit bacca Venafri...” (Quest' olio per te stillò l' oliva di Venafro
campana - Epigrammaton, XIII, 101), apprezzandone le qualità dell'olio di Venafro nella preparazione degli unguenti: “unguentum quoties sumis et istud olet"; "Uncto Corduba laetior Venafro / Histra nec minus absoluta testa "XII, 63, vv. 1-2
Ancora Orazio, in una satira considerava stupefacente una salsa di erbe aromatiche e zafferano, solo se condita con olio venafrano.
In un'altra satira, esaltò il sapore di una morena bagnata da un intingolo con olio di Venafro, ricavato dalla prima molitura. (“His mixtum ius
est: oleo, quod prima Venafri pressit cella...” la salsa risulta composta di questi ingredienti: di olio che pressò il primo frantoio di Venafro... / “Pressa venafranae quod bacca remissit olivae...“ olio che la pressa di Venafro sprigionò dalla bacca di oliva - drupa , 1.2 - sat. 4/1.2 sat. 8).
Plinio il Vecchio affermava: "Principatum in hoc quoque bono obtinuit orbe maxime agro venafrano, eiusque parte, quae Licinianum fudit oleum unde et Liciniae gloria praecipua olivae” (L'Italia tiene anche per questo prodotto, per l'olio, il primato sopra tutto l'orbe, maggiormente nell'agro venafrano, e in quella contrada che produce l'olio liciniano, dal quale specialmente ha tratto tanta rinomanza l'uliva liciniana).
"Unquenta hanc palmam dedere accomodato ipsis odore. Dedit et palatum delicatiorem sententiam. Coetero baccas Liciniae nulla avis appetit" (Plinio, De Oleo, vol. II, XV,1,8, p.513).
Giovenale nella satira su Virrone narrava: “Ipse venafrano piscem perfudit: at hic, qui | pallidus adfertur misero tibi caulis, plebi | lanternam…” (sul pesce Virrone versava olio di Venafro, mentre agli ospiti veniva dato un olio lampante, usato per le lanterne - Satire, I, 5, v.85).
L'Heurgon afferma a ragione, secondo Gennaro Morra, che Virgilio non può non aver pensato a Venafro nel citare l'ulivo ("illa tibi laetis intexet
vitibus ulmos | illa ferax oleo est, illam experiere colendo | et facilem pecori et patientem vomeris unci: | talem dives erat Capua." Georgiche, II, vv. 221-225), raro nel territorio campano: "E' piuttosto lì in effetti, tra i 200 e i 600 metri di altitudine, sulle pendici delle colline che si abbassano verso il Volturno superiore e medio, che converrà cercare le olive di Virgilio".
Gli oliveti e l'olio di Venafro erano talmente apprezzati nel bacino del Mediterraneo, che il geografo Strabone, nel I sec. a.C., li cita nella sua descrizione dell'Italia (De Geographia, V, 3, 10).
Historia della citta di Venafro – Primicerio Ludovico Valla - 1687
Giovanni Presta di Gallipoli, il maggiore studioso dell’olivicoltura di Venafro, nella prefazione alla sua "Memoria intorno ai 62 saggi diversi di olio presentati alla Maestà di Ferdinando IV, Re delle Due Sicilie" (1788), parlando del miglior olio al tempo dei Romani, scriveva: "Si distingueva su ciò Venafro, e quel poco di olio che ivi se ne traeva, iva per lo più riservato ai proprietari degli oliveti, era riservato ai più delicati, ai più schifiltosi, ai più ricchi"."…e non pertanto non troverassi che gli oli nostri siano superati dai Venafrano, ed in ispezialità da quei di Licinia che era l'uliva al cui olio non conoscevano gli antichi il migliore ".
Venafro e i suoi olivi destarono ammirazione in viaggiatori del passato, come l’abate domenicano Serafino Razzi verso la fine del Cinquecento, e l’abate Giovan Battista Pacichelli nel 1685.
Nel 1789, visitò Venafro il conte svizzero Carlo Ulisse De Salis Marschlins, in un tour nel Regno Borbonico, insieme a studiosi “di cose rustiche” e all’arcivescovo D. G. Capecelatro.
Nel settembre dell’anno 1790, Sir Richard Colt Hoare visita Venafro, partito da Caserta in compagnia di “Don Andrea Paruta e dei signori Philip e George Hachert”. Il 23 maggio 1793 G. M. Galanti, partito da Capua, è a Venafro.
Il maggior prodotto agricolo di Venafro, è stato apprezzato anche da Lorenzo Giustiniani nel 1805, mentre Michele Tenore, illustre botanico napoletano, fu a Venafro nell’estate del 1831; Richard Keppel Craven nel 1837 pubblica il libro “Viaggio attraverso l’Abruzzo e le province settentrionali del Regno Napoletano”, citando Venafro.
Percorrendo più di 3000 chilometri a piedi, Craufund Tait Ramage, nel 1868 visitò quasi l’intero Regno di Napoli, fermandosi ad ammirare i famosi olivi di Venafro.
Jean Claude Richard de Saint Non, menziona Venafro “celebre per il suo olio, il migliore di tutta l'Italia”, nella descrizione del Regno di Napoli e
Sicilia” (immagine successiva).
La città di Venafro appare povera rispetto al passato, invece, al tedesco E. Paulus W. Kaden nel 1885.
Ancora scrissero di Venafro e i suoi olivi Alfonso Perrella, Berengario Amorosa, Giovanni Sannicola, segretario della “Reale Società Economica di Terra di Lavoro” e Frédéric Jacques Temple, che nel 1943-44 partecipa alla campagna d’Italia con il Corpo di spedizione francese, dedicando agli olivi una struggente poesia.
Tra i cultori della materia, citano gli olivi di Venafro il fiorentino Piero Vettori nel 1594, nel “Trattato delle lodi e della coltivazione degli ulivi”, Cosimo Moschettini da Martano (LE), prendendo spunto dalle ricerche di Giovanni Presta, sulle le varietà Licinia e Rosciola, il cav. Luigi Granata nel 1841, nel suo catechismo agrario e il Marchese Giuseppe Palmieri di Martignano (Le), Ministro del Supremo Consiglio delle Finanze del Regno nel 1789.
Il Marchese di Pietracatella, Consigliere Ministro di Stato del Re, Presidente del Consiglio dei Ministri di Ferdinando IV e Presidente della Reale Accademia delle Scienze di Napoli, cita la magnificenza degli olivi Venafrani, nel 1818.
Nel 1820 Padre Niccola Onorati Columella, professore nella Real Università degli Studi di Napoli, sostenitore dell’agricoltura quale fonte unica della pubblica felicità, nomina l’olio Liciniano tra i prodotti più importanti del Regno.
Il sommo botanico Vincenzo Petagna nel suo trattato di classificazione delle piante “Institutiones Botanicae” descriveva nel 1760 a Venafro l’“Ulivo Gaetano”. “L’albero è sempreverde, e sempre in fioritura. L’infiorescenza è a grappoli e nei grappoli si vedono frutti di varia età provenienti da diversi tempi di fioritura; sono esca di tordi”.
L’Olivo gaetano, l’olivo maschio di Venafro, la colonizzazione degli olivi liciniani in Provenza sono altri argomenti tecnici e storici al contempo, che hanno stimolato nel corso dei secoli ampie disquisizioni accademiche. Argomenti, che solo recentemente sono stati finalmente chiariti nella loro essenza, nel libro del Prof. Ferdinando Alterio “L’Olivo di Venafro, Viaggio nel Cuore Olivicolo del Mediterraneo”, edito dalla Volturnia edizioni (2011), per conto dell’Ente Parco Regionale dell’Olivo di Venafro.
L’illustre medico venafrano Niccola Pilla, che nel 1811 viene nominato dai francesi redattore-statistico nella stesura dell’inchiesta “La statistica del Regno di Napoli”, voluta da Re Gioacchino Murat, fu il primo classificatore delle varietà locali venafrane.
La notevole estensione dell'area coltivata ad olivo si era conservata fino alla fine del secolo scorso, come traspare nella accurata Monografia fisica - economica - morale di Venafro del 1877, scritta del Primicerio Francesco Lucenteforte: "A piè della montagna sinnalza al nord - ovest della valle, giace Venafro, la quale domina la sottoposta pianura. Un forestiere, che per la prima volta vi giunge, non può non restare ammirato al bel panorama che allo sguardo gli si presenta. Egli vede due selve di robusti ulivi, che a dritta ed a sinistra della Città verdeggiano lussuriosi lunghesso le falde del monte dal villaggio di Ceppagna a Pozzilli, per l'estensione di oltre a nove chilometri su due; osserva ben' ordinati orti ed abbondanti acque, che, dopo aver dato la mossa a diversi mulini discendono a formare il grazioso fiume di S. Bartolomeo".
"La leggiadra ed ubertosa pianta dell'olivo vegeta nel suolo venafrano rigogliosa e superba da non perdere molto al paragone con le più alte e robuste querce. Sono ordinarie le piante che hanno nel tronco la circonferenza di metri tre, e proporzionati al tronco hanno i rami principali".
Negli anni trenta del secolo scorso era ancora sviluppata la copertura olivicola: "Gli olivi dell'Agro di Venafro si estendono dal villaggio di Ceppagna, lungo le falde del Monte S. Croce, fino a Pozzilli per circa 6 km di lunghezza e per 1 di larghezza. Ed è perciò che tutto un bosco di olivi circonda per tre lati i fabbricati della Città di Venafro, si da offrire al forestiero uno spettacolo di bellezza e serenità, specie quando tutto questo folto bosco di olivi, sconvolto dal vento, appare allo spettatore quale un magnifico mare d'argento" (L'Olivicoltura in Agro di Venafro e le varietà coltivate - Gennaro Nola, 1936 - Roma).
Ancora notevole era la superficie pedemontana coltivata ad olivo nel 1960 (foto in basso). In alcune aree più basse, è riscontrabile la tipica disposizione degli olivi a "V", detta quinconcia (Quincuncialis ordinum ratio dei latini), che permetteva una migliore esposizione al sole delle piante ed un guadagno di 1,5 piante per ettaro, rispetto alla disposizione a quadrilatero.
Primati e curiosità
VENAFRO IMMERSA NEGLI OLIVI: DA MONACHETTI A NOLA
Alla fine del XVII secolo Benedetto e Giovanni Antonio Monachetti, nei loro lavori manoscritti " Storia di Venafro" somigliano la città ad un
uccello in volo.
"Questa città spande fuori due ali a destra e a sinistra, tra le falde delle sue montagne 'l piano due tratti d'ulive in lunghezza di due miglia da ciascuna parte e tutti detti oliveti ben coltivati che piuttosto potrebbero dirsi giardini che selve d'olivi. Somoglierei questa città ad un uccello che giacesse supino coll'ali, colla coda aperta, e distesa figurando la città essere il corpo, gli uliveti l'ali e la coda di tre recinti, il primo contiguo al corpo fatto degl'ortaggi, il secondo dalle vigne, e 'l terzo da' territori e per ultimo l'estremità della coda all'acque del Volturno".
E' vanto e ricchezza l'olivo venafrano per Eugenio Capaldi.
"E per parecchi chilometri, in ambedue i lati di Venafro, lungo le falde dei monti si spande questo aereo colore improntato alla terra.
L'olivo Venafrano, pel fusto e per la estensione dei rami gareggia con la quercia . Se in Italia non è stato Venafro la prima, come si dice , a coltivarli, è certo che nessun'altra città può provarne la precedenza, e si ha buon testimone che da Venafro gli olivi fossero stati portati nel mezzodì di quella che ora è la Francia.
Quei boschi di olivi di Venafro nei tristi tempi vernali offrono lavoro e facile guadagno a ogni classe di persone e soprattutto a persone ordinariamente non addette a campestri lavori. Contro il gelo, le tempeste e le mani ingorde e audaci del villano, si provvedono come meglio può; e quei boschi durano e crescono rigogliosi: Il vero Dio voglia salvarli da qualche decreto dittatoriale e da chi non ha né sa che si fare".
La notevole estensione dell'area coltivata ad olivo si era conservata fino alla fine del secolo scorso come traspare nella accurata Monografia fisica - economica - morale di Venafro del 1877, scritta del Primicerio Francesco Lucenteforte :
"A piè della montagna sinnalza al nord - ovest della valle, giace Venafro , la quale domina la sottoposta pianura. Un forestiere, che per la prima volta vi giunge, non può non restare ammirato al bel panorama che allo sguardo gli si presenta. Egli vede due selve di robusti ulivi, che a dritta ed a sinistra della Città verdeggiano lussuriosi lunghesso le falde del monte dal villaggio di Ceppagna a Pozzilli, per l'estensione di oltre a nove chilometri su due; osserva ben' ordinati orti ed abbondanti acque, che, dopo aver dato la mossa a diversi mulini discendono a formare il grazioso fiume di S. Bartolomeo ".
Gennaro Nola in un saggio sull'olivicoltura venafrana del 1936 sottolinea:
"Un bosco di olivi circonda per tre lati i fabbricati della Città di Venafro, si da offrire al forestiero uno spettacolo di bellezza e serenità, specie quando tutto questo folto bosco di olivi, sconvolto dal vento, appare allo spettatore quale un magnifico mare d'argento".
VIAGGIO A VENAFRO, DAL MARCHESE DE SALIS A FRANCESCO IOVINE
Nell'anno 1789, il Marchese Carlo Ulisse De Salis visita il Regno di Napoli.
"Da Isernia proseguii il mio viaggio lungo il Volturno, attraverso campi di grano, vigneti, boschi di quercie e colline rivestite di cespugli, alla cui sommità ha sede generalmente un villaggio. Siccome non vi esiste ponte, dovetti traghettare il Volturno, che qualche volta cresce tanto da impedire ogni comunicazione, ed arrestare temporaneamente il traffico. Subito dopo il passaggio del fiume, raggiunsi Venafro, piccolo borgo di 3000 anime, appartenente alla principessa di Avellino. Nel limitato territorio di Venafro si produce molto grano, vino, legumi, frutta; ma è importante più d'ogni altro, la qualità e la quantità dell'olio che vi si ricava annualmente. L'olio di queste terre era famoso anche al tempo dei Romani, ed ancora oggi vi sono le migliori qualità di alberi di ulivi, fra cui tiene il primato l'oliva Sergia, che il Dr. Presta di Gallipoli ritiene essere la Licinia citata da Plinio".
Nell'anno 1861, soldati milanesi furono a Venafro per manifestare e accrescere fratellanza, nel nuovo regno.
" Davanti ad una valle piana nel perimetro di più di 20 miglia che dilatasi a guisa di stella. E attorno, fin dove l'occhio può giungere, e lo spazio è molto, si rallegra lo sguardo alla bellezza di tante olive, che segno di pace , pare dovrebbe stabilire fra il Creatore e la creatura un patto d'amore indissolubile".
"Venafro s'innalza sul dosso del monte S. Croce, o poco meno di metà altezza, ove dominasi un vasto spazio; ma dove però meglio si domina tutta la provincia di Terra di Lavoro è dal vertice dello stesso S. Croce , il quale per la sua altezza offre uno di quegli spettacoli cui Dio concesse di veder continovo a chi nato fra i monti pare s'innalzi più leggiero non contaminato dal lezzo delle grandi città. Cosa incantevole a vedersi in quelle pianure e su quei monti è la meravigliosa coltura degli olivi che i Venafrani, introdussero fin dai tempi di Tarquino il Prisco, mentre in Italia ancora non era conosciuta"(Carlo Tedeschi).
Gli uliveti pedemontani hanno interessato lo scrittore molisano Francesco Jovine che dedica parole dolcissime al sito e alle piante.
"Campi grassi, irrigui, felici di vegetazione fittissima; strade dritte, percorse da agili carri dipinti vivacemente, cavallini adorni di fiocchi e di bubboli sonori. Su ai margini della piana la campagna tende ai monti prossimi con pigra dolcezza di declivi e di prode folte di ulivi dalle chiome interamente verdi, fronzute; le piante numerose in bell'ordine fanno bosco, hanno una cordiale solidarietà di vita. Ai suoi orci affluisce ancora, come duemila anni fa, l'olio giallo e denso come miele che piaceva a Cicerone".
L'OLIO VERDE DI ORAZIO
Q.F. Orazio in un dolce e crepuscolare carme confida, al caro amico Settimio, il desiderio di voler trascorrere l'età avanzata della propria vita a Tivoli, ma in caso di impedimenti avrebbe preferito la campagna di Taranto.
"Piaccia al cielo che Tivoli, fondata dai coloni argivi, sia la mia dimora nella vecchiaia e a me stanco segni il termine dei viaggi per mare e terra e delle fatiche militari. Se di lì le Parche avverse mi terranno lontano, io mi avvierò verso il fiume Galeso, diletto alle lanute greggi, e verso le campagne, su cui regna lo spartano Taranto: Quel cantuccio a me sorride sopra ogni altro della terra dove il miele non è inferiore a quello dell'Imetto e l'oliva gareggia con quella verdeggiante di Venafro ivi offre il cielo lunga la primavera e tiepido l'inverno" e l'Aulone, caro al fecondo Bacco, non invidia l'uva falerna".
Giovanni Presta, autore del settecento, ha posto molta attenzione al termine " viridique " e lo ritiene posto non a caso; in una nota presente in un suo libro riporta:
"non era Orazio un poeta da dare così per caso l'aggiunto di verde all'uliva, da cui traevasi de'suoi tempi il nostro olio: Viridique certat bacca Venafro".
Non dimostra avere dubbi il Presta sul fatto che a Taranto e a Venafro si produceva "l'oleum viride" o come lui preferisce chiamarlo semionfacino:
"In Ottobre in fatti tra noi addiviene, ch'elle (le olive) siano così vajolate, come il Columella le pretendeva, allorché volevasi corle, per fabbricare dell'olio fine, che li Romani dicevano oleum viride, oleum strictivum, oleum ad unguenta, qual soprattutto era l'olio celebratissimo dell'uliva Liciniana delle campagne di Venafro, sebbene la differenza del clima, e del sito ciò colà ritardasse sino al Novembre".
Noi non abbiamo autore, che apertamente assicuri, che anche tra i Salentini si fabbricasse l'olio onfacino, ma poiché Orazio del nostro olio cantò "viridique certat bacca Venafro ",è a desumersi che intendesse dell'onfacino, poichè non era egli un poeta da dar l'aggiunto di verde", viridique ", così a caso, e senza motivo".
LA COLTIVAZIONE DELL'OLIVO DI VENAFRO ATTRAVERSO I MILLENNI
Marco Porcio Catone , nominato " il censore" per la tenace difesa che ebbe a favore delle tradizioni romane , nel suo prontuario " Liber de Agricultura" riporta menzione dell'olivo e dell'olio di Venafro.
"In un terreno grasso e caldo pianta olive da condire: radio maggiore, sallentina, orchite, posea , sergiana, colminiana, albicera, quella di preferenza che in quei luoghi diranno essere la migliore. Pianta quest'oliva a intervalli di venticinque o trenta piedi. Nessun altro campo sarà buono a metterci l'oliveto, tranne quello che sarà rivolto verso il favonio e ben esposto al sole. Se un campo sarà alquanto freddo e magro, bisogna piantarvi l'oliva liciniana: se invece la pianterai su terreno grasso e caldo, l'olio sarà cattivo, l'albero perirà per eccesso di produzione e lo rovinerà il muschio rosso".
M.T. Varrone e Plinio il vecchio ribadiscono l'adattamento e la preferenza della licinia ad un suolo povero e freddo:
"Nel suolo piuttosto freddo e scarso, bisogna piantarci l'olivo di Licinia. Se lo metterai in un luogo grasso e caldo, da' olio cattivo, la pianta perisce per eccessiva fecondità e s'imbratta d'un rosso che la intristisce" e "venendo inoltre attaccato dal musco e dalla ruggine ", specifica Plinio. Quest'ultimo, d'altro canto nella sua Naturalis historia (XVII, 31) afferma: "nel territorio di Venafro il terreno ghiaioso è adattissimo alla coltivazione degli ulivi "(glareosum oleis solum aptissimum in Venafrano).
Il Marchese Carlo Ulisse De Salis nel suo Viaggio nel Regno di Napoli del 1789 precisa che a Venafro "Nelle annate di buon raccolto, si ricavano più di 70.000 staia di olio, che viene venduto a 16 carlini lo staio. Gli oliveti da me esaminati si trovano tutti in floridissime condizioni, ed osservai che era buonissima la potatura degli alberi".
Il Lucenteforte, invece, già alla fine dell'Ottocento, indugiava sulle errate pratiche colturali, specificando: "I proprietari di uliveti ritenuti dalla lentezza onde l'ulivo cresce, e dal dispiacere di perdere il frutto che avrebbero avuto da' rami tagliati, non sanno indursi a potare un ulivo se non quando lo veggono mal ridotto e sparuto. Ma allora sono costretti, loro mal grado, a tagliare de' rami grossi; e poiché veggono che la piaga fatta non rimargina, ma diviene cancerosa da restarne roso il legno, e concavo il tronco, più duri nemici divengono della potagione".
Il danno procurato con la cattiva potatura è espresso anche in versi :
Guarda il tronco
Tutto cavo! Perché? Vedine il taglio
Del grosso ramo, e qual qui stava larga
Profonda ed insanabile ferita
Che cancrenosa addivenuta a poco
A poco il legno ha roso,e tanto
Che serba appena omai segno di vita
Quell'aspetto perché languido tutto?
Ancora, il Lucenteforte nella sua Monografia di Venafro (1877), fa una disamina della disposizione degli olivi"E l'aspetto d'un ombrosa foresta hanno appunto gli oliveti Venafrani e per difetto di distanza e specialmente perché gli alberi generalmente non vi sono a simmetria disposti". L'Autore poi spiega: "Chi pone mente agli oliveti più antichi e a quelli che sembrano più disordinati, troverà ordine, direzione e simmetria nelle piante più annose, e tutto il contrario nelle piante più recenti; onde desumerà che il difetto è de' tempi successivi, per varie cause, tutte figlie dell'avidità del proprietario, che si studia sempre di avere un numero di alberi maggiore di quello che lo spazio non consente".
L'OLIO DI VENAFRO AI PIU' SCHIFILTOSI E RICCHI
Giovanni Presta nella "Memoria intorno a i sessantadue saggi diversi di olio presentati alla Maestà di Ferdinando IV, Re delle Due Sicilie" (1788), parlando del miglior olio al tempo dei Romani, scriveva: "Si distingueva su ciò Venafro, si distinguevan altri Paesi , ma né l'Attica , né il paese Sabino , né il Romano; e quel poco, che da Venafro se ne traeva, iva per lo più riserbato ai Proprietari degli Uliveti, era riserbato ai più delicati, ai più schifiltosi, ai più ricchi" … " e pur non per tanto non troverassi che gli Olii nostri sien superati dai Venafrani, ed in ispezieltà da quei di Licinia che era l'uliva al cui Olio non conosceano gli Antichi il migliore ".
Giovenale, scrittore latino nella satira sul ricco Virrone narrava che questi sulla squilla circondata da asparagi, versava olio di Venafro, mentre l'ospite sopra il suo gamberetto, misero uovo e cavoli versava olio lampante della Numidia che era portato a Roma dai discendenti di Micipsa:
"Ipse venafrano piscem perfudit: at hic, qui | pallidus adfertur misero tibi caulis, plebi | lanternam … ".
Q.F. Orazio, in una satira apprende dall'amico Cazio che in una cena è regola presentare due salse; una delle due deve avere per componente olio di Venafro:
"Val la pena di conoscere la qualità di due specie di salsa: una semplice che si compone d'olio fresco, da combinare con vino generoso e con salamoia , non diversa da quella che prese odore negli orci di Bisanzio: l'altra si ottiene facendo bollir questa con erbe triturate e sparsa di zafferano Coricio, lasciandola raffreddare, con l'aggiunta di olio d'oliva spremuto dai torchi di Venafro".
In un'altra satira, fa raccontare a Fundanio il pranzo che Nasidieno Rufo ha offerto a Mecenate. Esalta il sapore di una murena presa incinta che è contornata da granchi natanti in una salsa che ha tra gli ingredienti olio di Venafro, di prima molitura.
"Qui compare, disteso in un vassoio, una murena contornata di granchi natanti nella salsa questa (dice il padrone ) è stata presa incinta, perché, dopo il parto, la carne è meno gustosa. La salsa è composta di questi ingredienti: olio di Venafro, di prima spremitura; estratto di pesce dell'Iberia; vino di cinque anni, ma dei nostri paesi, versato mentre il tutto bolle".
Fundanio, suocero di M.T. Varrone incontra il genero alla festa della Sementa e discorrendo della dolcezza del nostro clima dichiara:
"Al contrario , in Italia, non v'ha cosa utile che non solo non vi nasca, ma che non riesca anche bene. Qual grano mai si potrebbe paragonare al grano della Campania? Qual frumento a quel dell'Apulia? Che vino al Falerno? Che olio al Venafro? E non è essa l'Italia tutta messa ad alberi da parer un pometo? N'è forse più abbondante di vino la Frigia, che Omero appella ricca di viti? O Argo, che lo stesso poeta dice polipira. Dove mai ogni iugero di terra fa 10 a 15 otri di vino, quanti alcune regioni d'Italia".
Si fabbricavano a Capua e Venafro profumi:
G. Cotugno riporta
"e con ragione i profumieri Capuani se ne servivano, per fare i loro preziosi unguenti di rose".
Per G. Morra erano presenti a Venafro opifici per l'estrazione di essenze floreali.
"Altra industria che sembra sia stata presente a Venafro fu quella dell'estrazione delle essenze dei fiori, che ebbe grande diffusione in Campania dopo che , nel 189 a.C., per ridurre le importazioni dall'Oriente, fu proibito il commercio di cosmetici di provenienza straniera.Essa, col tempo, dovè notevolmente progredire e la sua rinomanza diffondersi se Marziale,273 anni più tardi, componeva il seguente epigramma. ..."" Le olive del campano Venafro hanno distillato quest'olio per te: tutte le volte che tu prendi un unguento, ha anch'esso questo profumo".
L'OLIO DI VENAFRO: UN PRIMATO MONDIALE
Nessun luogo al mondo, coltivato a olivo, ha più tradizioni ed è più citato dalle fonti antiche, del territorio pedemontano di Venafro.
Plinio, nella Historia naturalis fa una classifica dei migliori oli del mondo antico.
"A volerla bene intendere, la natura è stata in questo previdente, in quanto il consumo immediato del vino, nato per ubriacare, non risponde ad un'esigenza pratica, e anzi quella punta di svaporatura che il vino assume invecchiando invita a conservarlo; ella non ha voluto che si facesse risparmio di olio e ne ha diffuso, di conseguenza, l'impiego anche tra la gente comune. Anche rispetto a questa risorsa il primato in tutto il mondo lo ha ottenuto l'Italia, grazie soprattutto al territorio di Venafro, e a quella sua zona da cui si ricava l'olio liciniano, per cui è diventata di gran pregio anche l'oliva Licinia. A conferirgli questa preminenza sono stati i profumi, con i quali il suo odore lega bene, nonché il giudizio più raffinato del palato. 'Del resto nessun uccello becca le olive licinie. Il posto successivo in questa gara è ripartito a pari merito tra l'Istria e la Betica. Per il resto le province più o meno si equivalgono per la qualità del prodotto, se si eccettua il suolo dell'Africa, produttore di messi: la natura lo ha accordato tutto intero a Cerere; quanto al vino e all'olio, si limitò a non negarglieli e gli procurò gloria a sufficienza coi cereali".
Alla fine del XVII secolo Benedetto e Giovanni Antonio Monachetti, nei loro lavori manoscritti " Storia di Venafro", nel capitolo "Oglio e Olivi", esaltano l'olio e la gestione degli oliveti, richiamando il geografo Strabone, (I sec. a.C.)
"E' questa città abbondantissima di ogni sorta di necessario all'umano vitto, soprattutto spande da ambedue i lati quasi due ali di abbondantissimi ulivi dai quali si raccoglie olio di fatturazione perfetta che secondo la testimonianza di antichi e moderni autori, non v'è migliore olio in tutto il regno del mondo. La testimonianza di Strabone dando il vanto di tutte le cose necessarie al vitto umano cioè il grano, vino e olio alla Campagna detta perciò Felice non ammette parzialità nel grano, nel vino vanta il Falerno, il Setino, Caleno, la preminenza dell'olio la restringe a quel di Venafro solo del quale va dicendo così "Venafrum unde oleum optimum".
Nel II secolo a.C., Marco Porcio Catone suggeriva nel Liber de Agricultura, , di applicare nella vendita delle olive la " Lex oleae pendentis" che aveva sperimentato a Venafro ove possedeva un oliveto di 240 iugeri (60 ettari)
"L'oliva si vende sulla pianta con questo contratto: "Si venderà dell'oliva sulla pianta in un fondo di Venafro. Chi comprerà l'oliva, oltre al prezzo pattuito, darà la centesima parte di tutta la somma all'esattore e il prezzo del presente bando che è di cinquanta sesterzi. Inoltre darà millecinquecento libbre di olio romano, duecento libbre di olio verde, cinquanta moggi di oliva cascola e dieci di oliva colta a mano: tutto misurando col moggio oleari".